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In the mood of Panikos
#GrignolinoPanikos

La prima volta in cui abbiamo posato gli occhi su quello che sarebbe presto divenuto il nostro primo vigneto l’immagine ideale del Grignolino, di un vitigno esuberante, anarchico, indomabile era molto lontana ed i lunghi tralci rinsecchiti, come fili d’ Arianna, conducevano verso qualcosa di mostruoso. Cosa poteva aver piegato quel titano?

Il colle su cui era disteso era meraviglioso, con un’esposizione “da cinema”, ma il film che stavamo guardando era di una brutalità inaudita. I filari, stecchiti, brillavano, sferzati dal vento, sotto al freddo sole di febbraio. L’erba, ghiacciata, era indietreggiata di fronte all’avanzata di grandi spazi fangosi. Il vigneto era in abbandono e, solo, continuava la sua esistenza come un vascello alla deriva. Le viti apparivano come soldatini in fila, con il morale a terra, come chi, di ritorno da una battaglia persa già presagisce un’altra Caporetto, insomma tutt’altro che tralci indomiti e vigorosi.

Il vigneto era come un superstite, un organismo svilito, immobile nella sua trincea, in attesa di un segno in grado di restituirgli il coraggio di muoversi. Capimmo che avremmo dovuto prenderci cura di lui. Lì la questione non era quanto avrebbe prodotto ma la domanda da porsi era come risollevarlo dalla sua visibile sofferenza, come rianimarlo. Sotto ai cristalli di ghiaccio, al di là dei fili di ferro, era visibile un carattere insolitamente forte, una fibra instancabile, un orgoglio assoluto e primitivo.

Ed è cosi, che,tra mimesi ed osmosi, decidemmo di aiutarlo a ritrovarsi, a liberare tutto, ma proprio tutto, il suo caratteristico entusiasmo. Le “operazioni di rigenerazione” sono allora iniziate sulle note dell’album End of the Century dei Ramones. Seppure con un po’ di pena potammo i suoi tralci aggrovigliati, sanammo le sue cicatrici, tagliammo l’erba tra i filari e lo riportammo a ciò che più poteva avvicinarsi alla forma tradizionale promettendogli di lasciarlo in pace, di dargli il tempo di riprendersi, di non chiedergli niente.

Tornammo alcuni mesi dopo e ci rendemmo conto che lui era lì, presente, forte, sano. I suoi tralci erano diventati lunghi, la sua chioma scompigliata vibrava mossa dal leggero vento primaverile, le coccinelle e gli altri pronubi avevano ricominciato a frequentare le sue fronde, il tappeto erboso ai suoi piedi era diventato soffice, verde, pieno di erbe spontanee come la mentuccia, il tarassaco, la borragine, dei sempre più rari fiordalisi (vittime dei diserbanti), di orchidee selvatiche e di molte altre. Tra i filari si nascondevano lepri, piccoli topi, volpi ancestrali dalle code argentate ed antichi ramarri verde smeraldo.

Eccolo lì, con la sua aria sfrontata ed esuberante, con la sua scompostezza irriverente, con il suo profondo animo punk. Il gigante si era rialzato e ci stava ringraziando con una generosità commovente. Il suo spirito ribelle era tornato!

 

A questo punto non restava che dargli un nome. Doveva essere un nome fedele alla sue indole selvaggia, un nome antico, ma allo stesso tempo punk. Ci mettemmo pochissimo. Subito ci venne in mente il Dio Pan, il satiro per eccellenza, un po’ antropomorfo ed un po’ caprone, che con il suo flauto diffondeva nei boschi e nei campi melodie misteriose ed inebrianti e poi, ovviamente, la musica punk che accompagnava ogni nostra immersione al suo interno. Da due parole una, il gioco era chiaro ed il dizionario greco ci dava la sua magica benedizione.

 

 

 

PAN-i-K-os: πανικ?ς 1. relativo al dio Pan, dio delle montagne e della vita agreste, patrono del riposo meridiano; in partic., era detto timor p., terrore p. quel timore misterioso e indefinibile che gli antichi ritenevano cagionato dalla presenza del dio Pan; letter., ora p., quella assolata e sensuale del meriggio estivo. 2. Che riguarda la natura concepita paganamente o panteisticamente come forza vitale e creatrice, causa di sgomento e insieme oggetto di ammirazione: le forze p. dell’universo; un senso p. della natura; il carattere p. della poesia dannunziana

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